lunedì 12 aprile 2010

Il Papa, l’economia e i profilattici


Qualche giorno fa la Rai per commemorare l’anniversario della morte di Papa Giovanni Paolo II, ha proposto nell’ambito dei pochissimi spazi ancora disponibili ad una tv di valore, un interessante documentario con Giovanni Minoli sulla vita del grande pontefice scomparso 5 anni fa.

Il documentario, oltre ad essere stato un’opportunità di informazione e approfondimento, stimolava una più ampia riflessione sull’impatto morale della figura di Karol Wojtyla sui nostri tempi.

Verso la fine del contributo multimediale il giornalista, parlando anche del suo successore, poneva una domanda molto interessante: Benedetto XVI è stato fino ad oggi un Papa che non ha taciuto sui mali del mondo ed ha criticato fortemente la finanza, l’edonismo sfrenato, la mancanza di giustizia sociale e anche… l’uso dei profilattici. Nonostante ciò, la maggior parte dell’opinione pubblica sembra però ricordare quasi esclusivamente la critica verso questi ultimi dimenticando quasi del tutto quelle rivolte agli altri concetti di gran lunga, a parer mio, più importanti per l’espletamento di una piena e completa dottrina sociale della chiesa.

Ci sarebbe da chiedersi a questo punto come mai questi concetti non abbiano sollevato le stesse reazioni scatenate per l’uso dei preservativi.
Le risposte, secondo Minoli, potevano essere di due tipi : o il Papa non era stato in grado di comunicare efficacemente quei concetti, oppure i mass media, ponendo l’accento sull’uso dei profilattici, avevano opportunamente sviato l’attenzione dalle altre problematiche.

E’ molto probabile e plausibile, la seconda versione, anche perché l’attuale pontefice si è interessato all’economia come pochi altri suoi predecessori scrivendo un’enciclica - Caritas in Veritate - (2) nella quale tratta ampiamente di problematiche economiche e sociali lanciando seri e illuminati spunti per coloro che vogliono e possono comprenderne il significato fino in fondo.

Nella sua enciclica il Papa invita alla ricerca della verità. Questa deve far uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive e consentire agli stessi di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche per incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. Visti gli attuali e strutturali problemi economici che stanno flagellando i popoli, egli ritiene necessario “…liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi”

Ricordando a sua volta l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, fa notare come le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale ma risiedano piuttosto nella volontà degli uomini che spesso per egoismo disattendono i principi base di solidarietà umana.

Rimarca il concetto della perdita di sovranità degli stati che in questa economia sempre più speculativa dovrebbero invece ritrovare una rinnovata valutazione del loro ruolo a beneficio dei loro popoli.

Non sottace neanche sull’omologazione delle culture che si presta purtroppo alla facile manipolazione delle persone compromettendone il loro integrale sviluppo.

L’enciclica è insomma un concentrato di cultura e analisi economica, dove il Papa argomenta su temi scottanti che dovrebbero essere sempre all’ordine del giorno. Dalla sua lettura si capisce infatti come il pontefice abbia compreso fino in fondo quali siano i mali che stanno attanagliando il mondo ma, proprio per questo forse, avrebbe potuto scavare ancora più nello specifico fornendo maggiori strumenti di comprensione ad una platea più vasta.

Avrebbe forse potuto prendere spunto da un altro pontefice “economista” Pio XI che, all’indomani del grande crollo della borsa americana, nel 1931 pubblicando la sua enciclica Quadragesimo Anno (3) scriveva: “in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, (banche centrali private e d’affari… Nda) e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l'organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l'anima dell'economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare”.

Da queste ultime righe di Pio XI a quelle di Benedetto XVI, tutto sommato non è cambiato molto, o meglio è cambiata la gravità di una situazione che diventa sempre più squilibrata e pericolosa a causa della “moneta-debito” di cui pochissimi comprendono veramente l’alchimia ma della quale tutti vedono la terrificante conseguenza di un assurdo e crescente indebitamento che sottomette e domina i popoli peggio di qualsiasi guerra. Questo non significa rinnegare le basi concettuali su cui poggia il sistema economico ma, come dice Benedetto XVI, va ricercata la verità per essere veramente liberi di ripensarlo in una forma più umana.

A ragione economisti come J.K. Galbraith(4) o poeti come Pound (5) hanno sempre sostenuto che l’economia dovrebbe interessare tutti perché essa condiziona ogni scelta e possibilità di sviluppo di ogni singolo individuo e che solo conoscendola è possibile comprendere veramente la storia dell’uomo e imparare qualcosa di utile da essa.

Dopo magari si potrà discutere anche di profilattici.

6 aprile 2010

Alberto Cacciatore
Pubblicato su: www.galatina.it

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)



Bibliografia

1. Raiuno, Giovanni Paolo II - Sine Die - Omaggio al Santo Padre
2. Benedetto XVI, Lettera Enciclica - Caritas in Veritate - dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, dell'anno 2009, quinto del Pontificato. Libreria Editrice Vaticana
3. Pio XI, Lettera Enciclica - Quadragesimo Anno - dato a Roma, presso San Pietro, il 15 maggio 1931, anno decimo del Pontificato. Libreria Editrice Vaticana
4. John Kennet Galbraith, Sapere tutto o quasi sull’Economia. Ed. Saggi Mondadori Milano maggio 1982.
5. Giano Accame, Ezra Pound economista, Settimo sigillo, Roma 1995

L'ottimismo come motore dell'economia


Esiste un vecchio detto che recita: " la differenza fra un ottimista e un pessimista è che quest'ultimo è solitamente un ottimista un po' più informato".

In materia economica tuttavia essere pessimisti non torna granché utile . Infatti, tutti coloro che hanno più o meno ruoli autorevoli nel mondo conomico, (politici, imprenditori, finanzieri, banchieri ecc.) Hanno quasi il dovere imprescindibile di comunicare, mostrare e trasferire ottimismo.

Questo perchè attraverso l'ottimismo si genera fiducia nel futuro e ci si predispone positivamente alla ripresa dello sviluppo economico.
Fiducia e ottimismo hanno il grande vantaggio di attivare così tutta una serie di comportamenti imitatori su vasta scala che spingono le persone a investire, consumare e quindi ceare reddito e ricchezza.

Ma per far si che le persone si lancino fiduciose e cariche di ottimismo in una qualsiasi nuova attività è necessario che ci sia un apripista che sia ritenuto più informato, più attendibile e più autorevole, sul quale fare affidamento per prendere le proprie decisioni.

Un piccolo esempio utile a spiegare questo meccanismo contagioso potrebbe essere questo:

Tizio, rispettabile cittadino della città X decide di costruire un fabbricato in una zona del paese poco appetibile fino a quel mometo. Immediatamente cominciano a girar le voci tra i suoi concittadini su quella che sembra essere inizialmente una scelta scellerata da parte di uno degli uomini più in vista della città. Ma man mano che passa il tempo, l'iniziativa del nostro coraggioso imprenditore viene segìuìta da altri investimenti dello stesso genere nella stessa zona, da parte dei suoi concittadini i quali, facendo leva sull'onorabilità e affidabilità di Tizio e attribuendogli il possesso di chissà quale informazione riservata, si prodigano anch'essi nel tentativo di erigere la loro casetta nei paraggi del suo fabbricato, pensando che quell'area, prima o poi, sarà oggetto di una grande opera di riqualifica urbana che farà valere bene il temerario investimento.

E' da comportamenti come questi, assimilabili a quello del gregge, che si innesca solitamente la bolla iniziale del motore economico.

L'ubriacatura di fiducia e la benevolenza degli altri porta a pensare che ci si può arricchire facilmente dando vita così ad un proprio boom speculativo.

Però, come in tutte le ubriacature da una "realtà alcolica" prma o poi bisognerà passare ad una realtà più oggettiva e razionale. A quel punto ci si accorgerà che forse quella fiducia e quell'ottimismo non erano ben riposti in quel costruttore e che quell'area dove si era costruito in maniera dissennata rimane e rimarrà malgrado tutto un'area di scarso interesse.

La storia economica annovera molti esempi di queste dinamiche. Ma senza scomodare ataviche bolle speculative di vario genere, basterebbe considerare in parte la recente crisi economica (2008, 2009 e a seguire) che dopo l'orgia speculativa edilizia, nella quale molti risparmiatori dopo essersi fidati di "onorabili" banche e società di rating (1), investendo i propri risparmi hanno visto crollare rovinosamente il mercato, rimanendo beffati e disillusi nel loro stesso ottimismo.

In questa storia però, manca ancora un piccolo tassello : ...la sorte di Tizo (il primo costruttore). Probabilmente le sue informazioni non erano migliori di quelle di tanti altri, ma nel frattempo, egli si è liberato del suo fabbricato ad un prezzo dieci, cento o mille volte più del suo costo di produzione. Ora assopito e dondolante su qualche amàca ai bordi di chissà quale spiaggia tropicale, sta pensando di costruire un nuovo edificio in qualche altra zona depressa di un'altra città.

In questo modo tantissimi Caio, fiduciosi e ottimisti del successo negli affari di Tizio lo seguiranno a stretto giro di ruota e l'economia ripartirà e di nuovo tutti saranno nuovamente fiduciosi e grandi, grandissimi ottimisti.

Ma nel frattempo, aspettando che l'economia riparta, quel costruttore apripista certamente si guarderà bene dal sostenere tutte quelle voci che ora rivendicano l'introduzione di nuove regole che scongiurino per il futuro nuove crisi e frustrazioni. Anzi, pur essendo consapevole che le cose vanno effettivamente male tanto da giustificare un razionale pessimismo, si prodigherà nel dire che tutto va bene e che bisogna essere ottimisti.

19/03/2010

Albero Cacciatore
Pubblicato su: www.galatina.it

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)



Bibliografia

1 che oltre a dare i voti alle società quotate in borsa svolgono anche attività commerciale in pieno conflitto d’interessi – L’ESPRESSO del 18 marzo 2010 pag.. 141

Poesia ed economia unite nel buon senso


Un uomo di grande talento del passato ha scritto che: “ il potere dell’uomo si manifesta nel poeta” perché, attraverso la poesia, è possibile scoprire il senso nascosto della visione del mondo.

Queste parole stimolano una riflessione su come discipline apparentemente distanti come la poesia e l’economia, siano invece molto vicine fra loro e come ideologie differenti, servano, a volte, semplicemente a dividere gli uomini inutilmente.

Ezra Pound fu un poeta di origine americana che morì a Venezia nel 1972. Durante la sua vita, prese apertamente posizione a favore del fascismo e lottò fino alla fine nel criticare aspramente il sistema economico poggiato sullo strapotere delle banche e sull’usura messa in atto sistematicamente da un sistema creato ad hoc. Una sua famosa citazione recita:

“Dire che uno Stato non può perseguire i suoi scopi per mancanza di denaro è come dire che un ingegnere non può costruire strade per mancanza di chilometri”.

La sua battaglia contro il sistema dell’”usurocrazia”1 gli costò tuttavia 12 anni in manicomio, perché le sue tesi sul denaro creato dal nulla dal sistema erano considerate semplicemente frutto di una mente straordinariamente poetica ma del tutto “incompetente” in materia economica.

Contemporaneo di Pound fu anche il famosissimo economista John Maynard Keynes che nella sua ricerca di una soluzione all’uscita della grave depressione che caratterizzò gli anni ’30, postulò la soluzione per gli stati di spendere in deficit per sostenere una domanda che si ostinava a rimanere drammaticamente bassa.

Questo nuovo approccio all’economia aveva a cuore le migliaia di famiglie che stavano sprofondando nella povertà assoluta e attraverso la spesa pubblica si pensava di rilanciare gli investimenti, la produzione e i consumi.

Keynes riteneva una follia che, per pagare impiegati e operai, bisognasse scavare nelle miniere per trovare nuovo oro, coniarlo e farne delle monete. Se impiegati, ingegneri e operai erano già una risorsa esistente idonea a creare ricchezza, tanto valeva farli lavorare subito per crearla senza aspettare l’estrazione di nuovo metallo pregiato da qualche nuova miniera . 2

Ogni Stato dispone già di strutture tecniche, organizzative, risorse umane e materiali per funzionare per cui, l’unico problema è la risorsa monetaria necessaria a pagare questi uomini che lavorano.

Keynes risolse il problema dicendo che lo Stato poteva indebitarsi in quanto, la ricchezza che si sarebbe prodotta utilizzando la spesa pubblica, sarebbe stata sufficiente a pagare i propri debiti.
Questi debiti, è il caso di ricordarlo, sono debiti verso il sistema bancario. Ma se uno Stato ha già tutte le risorse per creare nuova ricchezza, forse l’intuizione di Keynes dell’inutilità di mettersi a cercare nuovo oro potrebbe valere anche per il ricorso all’indebitamento bancario visto che l’attività finanziata con la spesa pubblica si giustifica da sola con la produzione di ricchezza (per inciso le monete già dal 1971 con il venir meno degli accordi di Bretton Woods non hanno più nessuna relazione con il prezioso metallo).

La spesa pubblica non è un semplice costo ma serve a far crescere anche il PIL e quindi la ricchezza del paese.

Forse a questo punto qualcuno potrebbe obiettare che in un sistema differente dall’attuale ci sarebbe il rischio di una dilagante inflazione……ma questa è un’altra storia.

Anche Keynes come Pound condannava l’usura dicendo : “ Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e delle virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno si affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano. Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cento anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno. “ 3

Cosa hanno in comune un poeta con ideologie di destra e un economista che piace tanto alla sinistra.

Secondo me solo una cosa. Il buon senso!

25 febbraio 2010

Alberto Cacciatore
Pubblicato su: www.Galatina.it

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)


Bibliografia

1 Giano Accame, Ezra Pound economista, Settimo sigillo, Roma 1995
2 J.M Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. UTET, Torino 1971
3 J.M.Keynes , Esortazioni e Profezie, Il Saggiatore MI, 1968, pag. 282. La prima stesura del testo risale al 1930

Il mercato fra ipocrisia e retorica


Il concetto di mercato in senso concorrenziale trova, dopo Adam Smith, le sue teorizzazioni più raffinate a partire dall’inizio del secolo scorso, con i cosiddetti neoclassici.

Secondo la dottrina economica prevalente, esso è quel luogo impersonale dove molte aziende e molti compratori, grazie al libero gioco della domanda e dell’offerta, si sottomettono a quello che è il prezzo naturale da esso risultante.

Nessuno può influenzare questo prezzo senza pregiudicare la giustizia regolatrice che lo accompagna.

In realtà le cose col tempo si sono un po’ complicate nel senso che questo “assioma”, nonostante la venerazione di cui gode, fa fatica ad operare concretamente.

Questo accade perché, dietro la consapevole retorica ed ipocrisia del mercato, tutti cercano freneticamente e più o meno lecitamente, di sottrarsi alle sue leggi.

A dire il vero nell’analisi economica neoclassica, questa situazione di imperfezione alla sua “purezza” era già nota, tant’è che furono coniati termini come, monopolio e oligopolio per giustificarne alcune anomalie di funzionamento. In buona fede probabilmente si credeva e forse si crede ancora, che queste fossero delle semplici eccezioni alla regola.

Purtroppo i nostri tempi ci suggeriscono ben altra realtà rispetto alla dottrina. Infatti dietro la facciata del mercato esistono e proliferano molti modi per controllare i prezzi e conseguentemente i relativi redditi.

Sulla materia ne sanno qualcosa già le grandi imprese multinazionali che data la loro dimensione, non rispondono più agli automatismi della domanda e dell’offerta, a queste si aggiungono quelle poche imprese che per qualche benedizione divina operano in concorrenza con pochi altri “compagni di mercato” facendo finta di districarsi in chissà quale concorrenza. Poi ci sono quelle aziende che si sottraggono alle regole del mercato attraverso “nuove” metodologie di management basate sugli oneri “extra-legali” - vedi tangenti, “centri benessere”, servizi gradevoli e personalizzati di belle escort e altro ancora, fino ad arrivare ad ogni singolo individuo che “compete” con i suoi pari nell’ottenimento di un qualche posticino o vantaggio economico cercando soluzioni di favore attraverso raccomandazioni, favori e o privilegi di ogni genere.

In questa sintetica e incompleta analisi tralascio volutamente lo Stato e gli eventuali altri suoi organi vitali in quanto si rischierebbe di entrare in un discorso più ingarbugliato dove parlare dei suoi monopoli e delle sue prerogative comporta una riflessione decisamente più complessa e poco adatta allo spirito un po’ provocatorio di questo scritto.

L’aspetto però che va sottolineato e sul quale si potrebbe meditare non poco è che forse non ha più senso parlare di mercato così come continuano a propinarcelo i manuali di economia.

Serve un nuovo approccio perché se la materia economica appartiene alle scienze sociali (i discepoli del prof. Friedman se ne dovranno fare una ragione prima o poi) e la società si evolve continuamente, allora dovrà evolversi anche il modo di insegnarla alla luce delle nuove variabili che inevitabilmente dovranno essere considerate.

16 febbraio 2010

Alberto Cacciatore

pubblicato su: www.galatina.it

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)

Capitalismo, ultimo atto


Se Adam Smith si svegliasse dalla sua tomba e desse un’occhiata a quello che è diventato il “laissez-faire”, con molta probabilità non crederebbe ai suoi occhi .

Anzi son quasi certo che lo “spettatore imparziale”, da lui immaginato nella sua opera “Teoria dei sentimenti morali” (1759) col compito di giudicare i comportamenti etici, sarebbe certamente molto contrariato nel vedere quanto gli stessi siano, almeno in ambito economico, quasi del tutto scomparsi.

Questo triste capitolo dell’evoluzione umana penso sia da imputare a quel processo inarrestabile di crescita del mercato dei capitali finanziari e delle valute.

La globalizzazione e le nuove tecnologie informatiche hanno infatti favorito un rapido sviluppo della finanza mondiale e con essa le innumerevoli possibilità speculative in ogni angolo della terra.

Questo diabolico meccanismo ha ormai sostituito la vecchia figura dell’imprenditore produttivo con l’affarista speculativo (paragonabile per certi versi alla figura individuata già da Thorstein Veblen in “La teoria della classe agiata” - 1899) creando in questo modo una fortissima instabilità a livello di domanda globale di beni. A causa anche delle incertezze valutarie dei mercati, ora accade che i capitali non si immobilizzano più in progetti durevoli di lavoro ma “vagano” alla ricerca di utili a breve termine.

Tradotto in parole più semplici, questo significa che i profitti non sono più legati alla produzione delle aziende e quindi degli uomini che in esse e per esse operano (imprenditori/lavoratori), ma dai listini borsistici e dai loro corsi altalenanti.

Si è creato in definitiva uno scollamento radicale tra un’economia basata sul lavoro e la produzione e un’economia fatta semplicemente di computer, di bit, di carta finanziaria e carta monetaria.

Di etico in un sistema del genere si capisce che c’è ben poco, lo ha ricordato anche Benedetto XVI nella sua recente enciclica “Caritas in veritate” nella quale ha ribadito l’importanza di ripensare l’economia sotto una luce più ispirata al dono e alla comunione.

Tuttavia, se volessimo fare uno sforzo mentale, potremmo trovare anche in questa nuova forma “finanziario-produttiva” qualcosa che abbia a che vedere con l’etica. Potremmo illuderci pensando che le capitalizzazioni di borsa possono ritornare prima o poi in modo stabile nel circuito dell’economia reale ossigenandola con nuove risorse in grado di rilanciare lavoro e produzione a tutto vantaggio della collettività. Peccato però che attraverso assicurazioni, sim e società finanziarie in generale, il risparmio viene sempre più sottratto ai redditi da lavoro e canalizzato in nuovi circuiti finanziari alla ricerca di maggiori e più lucrose rendite.

La verità è che dietro l’illusione di speculazioni faraoniche a beneficio di quei pochi che gestiscono e manovrano questo post-capitalismo finanziario, si stanno pian pianino smantellando interi comparti di welfare state come la sanità, la previdenza, l’istruzione oltre che l’energia, l’acqua ed i trasporti.

In sostanza stiamo assistendo inermi alla mercificazione dei nostri stessi diritti sociali.

Ma la conseguenza più grave di tutto ciò è che, a seguito della nuova gerarchia rendita finanziaria, profitto produttivo e reddito da lavoro, tutta la vita di ogni essere umano è pervasa dalla produzione creando dipendenza assoluta da un reddito presente e futuro (es. per assistenza e/o accesso ai servizi sociali)

Sotto gli occhi impotenti della politica accade paradossalmente che il lavoro diventa sempre più precario ma, allo stesso tempo, sempre più necessario a garantire un reddito che consenta di espletare anche le più semplici libertà declassate oramai, a mere formalità.

Sembra proprio che questo capitalismo sovrano, fatto di finanza e multinazionali, sia arrivato all’ultimo atto dove ogni persona è dominata ed espropriata della sua stessa vita in virtù di un “vangelo” che ci ha “convertito” tutti al laissez-faire.

Chissà cosa avrebbe detto Adam Smith..!

01 febbaio 2010

Alberto Cacciatore
Pubblicato su : www.galatina.it

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)

Settori pubblico e privato: forse un mito da sfatare

“Pubblico o Privato…questo è il problema!..?”

Parafrasare la celebre frase dell'Amleto di Shakespeare, mi sembra il modo migliore per introdurre un argomento che per certi versi sembrerebbe di difficile soluzione ma che forse rappresenta semplicemente un mito da sfatare. Vengo al dunque.

In tutte le società capitalistiche, oggi meglio definite con il termine più accomodante di società ad economia di mercato, si usa fare una distinzione di carattere economico-politico fra il settore cosiddetto pubblico e quello privato.

Dopo il venir meno dell’ideologia comunista di stampo sovietico, chi parla di settore pubblico oggi intende prevalentemente riferirsi a quei comparti di economia considerata più o meno indispensabile per la collettività e finalizzata a garantire coesione sociale e solidarietà umana.

Tenendo conto delle distinzioni che possono esserci fra i vari stati economicamente sviluppati, generalmente in questa branca di economia pubblica ricadono: l’istruzione, l’assistenza sanitaria, il sostegno ai più bisognosi, le grandi reti di trasporto e navigazione, l’informazione, la distribuzione di energia, le risorse idriche, la moneta (per la quale servirebbe un approfondimento specifico).

L’ingerenza diretta dello Stato in questi settori strategici è solitamente giustificata dal fatto che una gestione privata basata necessariamente sul profitto, avrebbe come conseguenza una minore attenzione nell’allocazione delle risorse e dei servizi verso le fasce più deboli della società. Accadrebbe cioè che alcune fasce sociali pur appartenendo allo stesso Stato e vivendo sullo stesso territorio, a causa delle loro minori possibilità economiche, si troverebbero a non poter usufruire neanche di quei servizi minimi finalizzati a garantire una vita decorosa degna di un paese civile .

Da questa argomentazione di fondo si sono sviluppati una serie di dibattiti politici su alcuni temi specifici caratterizzati spesso da una ridondante retorica e sempre più lontani dalla vera realtà.

Solitamente le argomentazioni di critica alla gestione pubblica sono indirizzate a far risaltare l’inefficienza, la bassa qualità dei servizi, la scarsa motivazione nel lavoro pubblico, la plètora di personale, gli eccessivi costi di gestione e non ultimo, la sottrazione di libere aree di operatività privata con conseguente perdita di reddito potenziale.

In realtà se si analizza più attentamente questa distinzione pubblico-privato, ci si accorge spesso come la stessa sia semplicemente formale e non sostanziale.

Basti pensare ad esempio alle “pressioni” (o collusioni) che la politica può avere con alcuni settori industriali privati i quali, oltre ad indirizzarne le decisioni, a volte arrivano addirittura ad esercitare un vero e proprio controllo sulla stessa e di conseguenza sul settore pubblico. (tanto per rimanere in Italia un esempio per tutti potrebbe essere rappresentato dallo scandalo Enimont)

Un segnale evidente di queste dinamiche deleterie di commistione pubblico-privato lo si potrebbe spesso individuare negli incarichi prestigiosi che vengono elargiti a fine mandato in varie forme (es. consulenze) da settori industriali privati a ex figure istituzionali (es. sottosegretari, parlamentari, capi di governo, ecc.) a titolo quasi di “ringraziamento” per l’appoggio dato nel favorire e/o giustificare l’ingerenza di quel particolare gruppo o lobby privata in determinati comparti pubblici. Ovviamente di questo aspetto allargato fanno parte anche quegli incarichi in palese conflitto d’interesse o situazioni dove i controllori appartengono ai controllati oppure dove manager di aziende private (magari poco corrette con il mercato e con i consumatori) passino a dirigere comparti pubblici.

Bastano questi semplici esempi per capire come ormai, le grandi imprese private possono esercitare un ruolo preponderante nelle decisioni pubbliche coinvolgendo inevitabilmente, nel bene o nel male, la vita di ogni cittadino. Queste organizzazioni private rappresentate dai loro gruppi di comando o élites (chiamatele come volete), data la loro forte influenza, possono addirittura rappresentare l’essenza del vero potere di uno Stato democraticamente costituito.

Oltretutto sembra che anche i media in generale non facciano più caso a questi aspetti tanto da farli sembrare quasi un’evoluzione “naturale” del sistema politico-economico generale.

Tutto ciò ha un’implicazione notevole anche sul concetto di mercato concorrenziale che spesso si invoca per giustificare un’ingerenza privata in uno specifico comparto pubblico.

Se come è vero il mercato perfettamente concorrenziale è una pura teorizzazione concettuale priva di riscontro oggettivo (vedi mio articolo su Galatina2000: Ritorno all’Economia Politica), a maggior ragione dinamiche di questo tipo non solo non lo perseguono ma addirittura creano i presupposti per una maggiore concentrazione sia di potere che di ricchezza a scapito ovviamente del benessere collettivo.

In molti paesi avanzati tuttavia ci sarebbe veramente bisogno di vere e proprie privatizzazioni che servirebbero a liberare nuove energie e potenzialità in termini di sviluppo e crescita economica. Peccato però che proprio dove bisognerebbe lavorare di più per concretizzarle ci si scontri ancora con delle lobby solide e apparentemente intoccabili che rendono ogni cambiamento assolutamente improponibile.

Se questi sono i contesti evolutivi della politica e dell’economia allora mi sembra di intuire che nel dilemma amletico almeno una certezza c’è. Il “Non essere” della democrazia.

26 novembre 2009

Alberto Cacciatore
Pubblicato su www.galatina2000.com

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)