lunedì 9 novembre 2009

Un nuovo “termometro” per misurare la salute dell’economia

Ogni cittadino appartenente ad un paese sviluppato, ha almeno due strumenti a disposizione per misurare il proprio stato di “salute”.

Il primo strumento è il termometro, comune aggéggio in grado di misurare la temperatura corporea ed individuare la presenza di febbre.

Il secondo invece, è uno strumento un po’ più singolare che serve a misurare principalmente la “salute economica” (intesa come ricchezza) del paese in cui si vive e per esso, quella di ogni singolo cittadino.

Per quanto riguarda il primo strumento, mi limito semplicemente a dire che sul mercato si possono trovare dei prodotti all’avanguardia anche con tecnologie digitali.

Sul secondo invece, vorrei dire qualcosa di più, anche perché, mentre il primo viene utilizzato solo in determinate circostanze della nostra vita (febbre), l’altro rappresenta ormai, quasi una presenza costante e a volte …inquietante.

Diciamo subito che stiamo parlando del PIL o meglio del Prodotto Interno lordo.

Contrariamente al termometro però, quando il PIL sale le cose vanno bene, il paese cresce e tutti siamo più ricchi e contenti mentre, quando il numero percentuale che lo identifica ristagna o addirittura scende, la ricchezza diminuisce e con essa, la nostra salute psicologica (…e soprattutto di questi tempi, rischia di essere compromessa anche la nostra salute fisica).

Senza entrare in inutili tecnicismi, potremmo dire semplicemente che il PIL si compone del valore, a prezzo corrente, di tutto ciò che è prodotto o venduto nel corso dell’anno in un dato paese.

La nascita di questo singolare “termometro dell’economia”, sembrerebbe risalire al dipartimento del commercio USA che dopo Pearl Harbour, grazie al contributo di un certo Gilbert ed di altri economisti, introdusse la nozione di prodotto lordo comprendente i tributi indiretti in luogo del reddito nazionale al netto degli ammortamenti e dei tributi diretti.“La ragione di tale cambiamento fu poi data parzialmente dallo stesso Gilbert con esplicito riferimento all’economia di guerra al fine di occultare la pressione fiscale attraverso una modifica del divisore” (1).I più esperti della materia certamente avranno già colto la peculiarità dell’“illusione fiscale” (2) generata da questa costruzione ad hoc. Ma forse, la cosa più importante da sottolineare, è che il PIL rappresenta un numero costruito per approssimazione misurante in maniera parziale, le attività e le produzioni umane.
Per facilitare la comprensione, riporto un esempio fatto qualche anno fa da uno dei più grandi economisti del ‘900, J.K.Galbraith:”…una città ben gestita, con parchi ben tenuti, strade pulite e sicure può avere un’incidenza minore sul PIL rispetto ad un’altra che non ha nessuna di queste qualità ma un’industria e un commercio più attivi..” (3) .

Ancora, nel calcolo del PIL, per misurare il progresso economico e sociale, non rientra l’accrescimento culturale, la fruibilità delle città, il godimento di un’opera d’arte, la qualità e la salubrità dell’ambiente e neanche il prezioso (e amorevole) lavoro delle nostre mamme nella gestione domestica della casa. Al contrario, viene considerato il numero di Suv venduti (senza alcun rifermento alla loro sostenibilità sulle nostre strade), il numero di prodotti di carta venduti (indipendentemente dal numero di alberi distrutti), ecc. ecc..

Inoltre, visto che i maggiori artefici della crescita del PIL sono le imprese con le loro produzioni, potrebbe anche verificarsi il fatto paradossale per il quale una grande impresa nazionale, a seguito di una sua particolare posizione dominante sul mercato, sia in grado da sola con le sue vendite, di far salire il PIL e quindi la ricchezza del paese, nonostante la maggior parte delle altre imprese langua in stato di grave difficoltà.

Certamente l’aumento del PIL ha dei vantaggi oggettivi, in quanto esso indica l’incremento di reddito, di occupazione e di molti beni materiali utili alla nostra vita. Ma il vero benessere, la qualità della nostra esistenza, non può essere legata solo a questo misuratore. Cito ancora Galbraith: “..l’arte di Firenze, quel gioiello di creatività civica che è Venezia, e poi Shakespear e Wagner vengono da società il cui prodotto interno lordo era modesto” (4).

Dopo anni di dibattiti sull’argomento, sembra che si comincino a sperimentare altri indicatori più consoni che, nel peggiore dei casi, dovrebbero affiancare il PIL in una più corretta misurazione del nostro benessere. L’impresa non è certo facile, in quanto, i nuovi termometri economici dovranno riferirsi ad aspetti della vita di carattere qualitativo.

Una cosa però è certa: indipendentemente da come verranno chiamati, siano essi BIL o FIL (Benessere Interno Lordo o Felicità Interna Lorda), avranno la grande responsabilità di rappresentare una realtà più oggettiva della nostra qualità della vita per non illudere (e/o disilludere) le generazioni future.

Alberto Cacciatore,
Milano, 9 novembre 2009
pubblicato su www.galatina2000.com

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)



Bibliografia:

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1.Marco Della Luna & Antonio Miclavez - Euroschiavi 3a ed. Arianna Editrice Casalecchio (BO) 2007
2.Da Euroschiavi numero 202 di moneta e credito – giugno 1998, rivista pubblicata da BNL, intervento professor Francesco Forte “La misura della pressione fiscale in rapporto al prodotto interno lordo in luogo del prodotto interno netto: un capitolo dell’illusione fiscale”;
3.John Kennet Galbraith – Sapere tutto o quasi sull’economia Ed. Saggi Mondatori Milano maggio 1982.
4.John Kennet Galbraith – The Economics of innocent Fraud (L’economia della truffa) RCS libri Milano maggio 2004

martedì 27 ottobre 2009

Il ritorno all’economia politica

Sicuramente a molti sarà capitato di guardare fra gli scaffali di una libreria commerciale e leggere fra i vari libri presenti titoli del tipo : Manuale di economia. Ciò sembrerebbe del tutto normale e ovvio se non fosse per il fatto che questi testi alcuni anni fa, alla parola economia, facevano seguire anche quella di “politica”.

In realtà questa “amputazione” trova la sua ragione nel tentativo (riuscito) che è stato fatto col tempo di far assurgere la materia a scienza esatta basata sempre più su leggi matematiche e allontanandola sempre più dalla sua vera natura di scienza sociale. In verità a difesa di un approccio squisitamente matematico si è schierata nel tempo una scuola di pensiero che fa capo all’economista Milton Friedman (c.d positivismo metodologico).

Al di là delle discussioni che si possono intraprendere sull’argomento, la cosa interessante da notare è che quelle sofisticate leggi numeriche così tanto santificate un tempo da economisti e politici di ogni genere per la loro presunta capacità di portare ricchezza e benessere a tutti, oggi sono seriamente oggetto di critiche aspre che le riportano correttamente a parer mio, nel quadro più consono delle scienze sociali.

Come spiega bene Luca De Biase nella sua opera Economia della Felicità, lo stesso Adam Smith (1723-1790) da tutti considerato il fondatore dell'economia politica, per il successo ottenuto dal suo saggio del 1776 Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, in un suo scritto antecedente alla sua maggiore opera, dal titolo Teoria dei sentimenti morali (1759), dimostra che fin dalla nascita la ricerca economica non è stata indifferente ai rapporti tra la sua sfera di ricerca specifica e i risultati degli studi dell'etica, della sociologia, dell'antropologia e della psicologia.

A questo punto verrebbe da chiedersi come mai la disciplina si sia sviluppata seguendo un percorso che per un lungo periodo l'ha portata a separarsi completamente da ogni altra scienza sociale. La ragione con tutta probabilità sta nel fatto, come dice De Biase, che un coacervo di interessi ha trovato conveniente sostenere l'esistenza di una sfera d'azione autonoma per gli operatori economici, in totale indipendenza dalla cultura della politica e dell'etica. Questo approccio creativo e innovativo è stato per un certo tempo piuttosto rilevante fino a che si è trattato di combattere i privilegi acquisiti in base alla tradizione feudale e aristocratica. Col tempo però questo modello ideale è andato completamente fuori controllo generando risultati culturalmente disastrosi. La forte critica che avanza, riguarda prevalentemente il concetto liberale di mercato e alcuni postulati che sono alla base del suo funzionamento.

Un primo postulato discusso è quello della razionalità delle scelte del consumatore secondo cui, quest’ultimo dovrebbe agire solo e soltanto in virtù di un meccanismo riconoscibile e collaudato. In realtà recenti e innovative metodologie di ricerca, (1) hanno messo in evidenza come questa capacità non si sia mai verificata a causa di molti altri fattori che influiscono sul comportamento individuale (la stessa pubblicità è uno di essi). Un altro postulato ancora più critico è quello relativo alla perfetta informazione che caratterizza la definizione dei mercati concorrenziali. Infatti secondo quanto comunemente accettato, questi hanno la capacità di garantire a tutti gli operatori le stesse informazioni che consentono di operare in maniera efficiente e perseguire la migliore allocazione delle risorse e, nel suo insieme, l’equilibrio.

Anche in questo caso è stato ampiamente provato come il postulato nella realtà non si sia mai verificato a causa delle c.d. asimmetrie informative (2) evidenziate dagli studi del premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz secondo le quali, esistono piuttosto diversi gruppi di potere che traggono continuamente vantaggi e profitti sfruttando le maggiori informazioni derivanti da una loro posizione di privilegio. Paradossalmente da qui consegue che, diversamente da quanto comunemente si pensi, i mercati concorrenziali invece di dover essere deregolamentati per funzionare al meglio, necessitano al contrario di una importante regolamentazione che consenta a tutti gli operatori parità di informazioni. Questo è tanto più vero se si riflette su quanto è accaduto nella storia recente nei mercati finanziari.

Pertanto da quando l’economia si è allontanata dalle scienze sociali, sembra (ma ormai è più che una sensazione) che ci si sia dimenticati come la sua stessa architettura sistemica sia stata pensata per servire l’uomo nel suo cammino di sviluppo e benessere e non certo per subordinarlo a leggi matematiche basate su assunti assolutamente irreali che lo hanno trasformano in una semplice risorsa di sistema. I tempi sembrerebbero quindi maturi per un ritorno all’ economia politica, magari ripensata in profondità a partire dalle sue fondamenta.

27 ottobre 2009

Alberto Cacciatore,
Pubblicato su www.galatina2000.com

(Tutti i diritti sono riservati. La pubblicazione degli stessi può avvenire solo fedelmente menzionando la fonte)


Bibliografia:

1.Luca De Biase – Economia della Felicità – Feltrinelli 2007 Milano;
2.Joseph E. Stiglitz – La globalizzazione e i suoi oppositori – Einaudi 2002 Torino;