Da quando è venuta meno la competizione con il sistema comunista, il capitalismo, sembra essere rimasto l’unico riferimento possibile per immaginare la vita e il futuro delle persone. Forse l’unica vera novità che lo ha caratterizzato dagli anni novanta in poi, è stata quella della sostituzione del suo nome con il termine più accomodante e più “democratico” di economia di mercato. Nonostante i fiumi di libri scritti e la forte dialettica che lo ha sempre caratterizzato, oggi il capitalismo sembra però quasi trovarsi in presenza di una sua progressiva accettazione anche se, il sentimento che in realtà qualcosa non funzioni, si fa sempre più diffuso.
Fasce sempre più ampie di popolazione infatti, sentono di essere ormai in un vicolo cieco; dove parole come sviluppo, politica economica, globalizzazione, suonano come vuote e senza alcun significato, di fronte alle crescenti difficoltà nell’ affrontare la vita.
Considerare il capitalismo da un’ottica strettamente antropologica permette di coglierne l’essenza e capirne sempre più la sua realtà. Una realtà che al di là delle parole nuove che di volta in volta si coniano per tradurlo in qualcosa di più attuale e di adeguato ai tempi, in sostanza racconta da circa trecento anni, sempre la stessa identica storia fatta di sfruttamento, diseguaglianza, abuso, cinismo, egoismo.
Tuttavia anche se la sua genesi è da ricondurre ad usura e guerre, oggi lo stesso capitalismo grazie alle sue conoscenze, alle sue tecniche produttive e alle sue capacità tecnologiche, consente all’umanità, almeno teoricamente, di provvedere in brevissimo tempo alla domanda di alimenti, vestiario, alloggi, istruzione, sanità per tutti gli abitanti del pianeta. Nonostante però esso rappresenti un’economia di sovrabbondanza e sprechi, gran parte della popolazione o sopravvive o vive male nell’indigenza e nella malattia.
Allora è più che lecito domandarsi se tale modello economico sia ancora perseguibile o se invece non sia il caso di pensare a qualcosa di alternativo che, superando il problema del bisogno economico, eviti di pervadere in maniera devastante anche gli altri ambiti della vita umana, superando di fatto l’effimera promessa di una felicità a pagamento.
Come ha egregiamente scritto Geminello Alvi nel suo libro “Il Secolo Americano - 1996”, il superamento del capitalismo non è un problema economico o giuridico, ma semplicemente solo spirituale. Esso: “ è opera di distinzione tra quanto deve essere inventato, prodotto e commercializzato così da soddisfare le necessità dell’economia sostanziale, e quanto invece è di più, ossia acquisto di felicità, promessa di agio, scorciatoia, seduzione spirituale”.
Superare il capitalismo significa superare l’idea e la bramosia del capitale che seduce tutti incondizionatamente. Solo in questo modo è possibile pensare a strade alternative e ad una sua trasmutazione come quella già proposta in passato da uomini come Silvio Gesell, Rudolf Steiner o Karl Polanyi . Nelle loro idee è possibile scoprire un denaro che non si accumula, dove l’economico è solo uno dei campi della vita umana e la terra, il lavoro e la moneta non possono e non devono essere considerati alla stessa stregua di semplici merci.
Anche questa un’utopia? Probabilmente si, ma resa tale solo dall’incapacità dell’uomo di provare a immaginarla concretamente e con l’ aggravante che non è più possibile aspettare altri trecento anni visto che è in ballo il salto della specie.
Milano 27 marzo 2011
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