lunedì 12 aprile 2010

Settori pubblico e privato: forse un mito da sfatare

“Pubblico o Privato…questo è il problema!..?”

Parafrasare la celebre frase dell'Amleto di Shakespeare, mi sembra il modo migliore per introdurre un argomento che per certi versi sembrerebbe di difficile soluzione ma che forse rappresenta semplicemente un mito da sfatare. Vengo al dunque.

In tutte le società capitalistiche, oggi meglio definite con il termine più accomodante di società ad economia di mercato, si usa fare una distinzione di carattere economico-politico fra il settore cosiddetto pubblico e quello privato.

Dopo il venir meno dell’ideologia comunista di stampo sovietico, chi parla di settore pubblico oggi intende prevalentemente riferirsi a quei comparti di economia considerata più o meno indispensabile per la collettività e finalizzata a garantire coesione sociale e solidarietà umana.

Tenendo conto delle distinzioni che possono esserci fra i vari stati economicamente sviluppati, generalmente in questa branca di economia pubblica ricadono: l’istruzione, l’assistenza sanitaria, il sostegno ai più bisognosi, le grandi reti di trasporto e navigazione, l’informazione, la distribuzione di energia, le risorse idriche, la moneta (per la quale servirebbe un approfondimento specifico).

L’ingerenza diretta dello Stato in questi settori strategici è solitamente giustificata dal fatto che una gestione privata basata necessariamente sul profitto, avrebbe come conseguenza una minore attenzione nell’allocazione delle risorse e dei servizi verso le fasce più deboli della società. Accadrebbe cioè che alcune fasce sociali pur appartenendo allo stesso Stato e vivendo sullo stesso territorio, a causa delle loro minori possibilità economiche, si troverebbero a non poter usufruire neanche di quei servizi minimi finalizzati a garantire una vita decorosa degna di un paese civile .

Da questa argomentazione di fondo si sono sviluppati una serie di dibattiti politici su alcuni temi specifici caratterizzati spesso da una ridondante retorica e sempre più lontani dalla vera realtà.

Solitamente le argomentazioni di critica alla gestione pubblica sono indirizzate a far risaltare l’inefficienza, la bassa qualità dei servizi, la scarsa motivazione nel lavoro pubblico, la plètora di personale, gli eccessivi costi di gestione e non ultimo, la sottrazione di libere aree di operatività privata con conseguente perdita di reddito potenziale.

In realtà se si analizza più attentamente questa distinzione pubblico-privato, ci si accorge spesso come la stessa sia semplicemente formale e non sostanziale.

Basti pensare ad esempio alle “pressioni” (o collusioni) che la politica può avere con alcuni settori industriali privati i quali, oltre ad indirizzarne le decisioni, a volte arrivano addirittura ad esercitare un vero e proprio controllo sulla stessa e di conseguenza sul settore pubblico. (tanto per rimanere in Italia un esempio per tutti potrebbe essere rappresentato dallo scandalo Enimont)

Un segnale evidente di queste dinamiche deleterie di commistione pubblico-privato lo si potrebbe spesso individuare negli incarichi prestigiosi che vengono elargiti a fine mandato in varie forme (es. consulenze) da settori industriali privati a ex figure istituzionali (es. sottosegretari, parlamentari, capi di governo, ecc.) a titolo quasi di “ringraziamento” per l’appoggio dato nel favorire e/o giustificare l’ingerenza di quel particolare gruppo o lobby privata in determinati comparti pubblici. Ovviamente di questo aspetto allargato fanno parte anche quegli incarichi in palese conflitto d’interesse o situazioni dove i controllori appartengono ai controllati oppure dove manager di aziende private (magari poco corrette con il mercato e con i consumatori) passino a dirigere comparti pubblici.

Bastano questi semplici esempi per capire come ormai, le grandi imprese private possono esercitare un ruolo preponderante nelle decisioni pubbliche coinvolgendo inevitabilmente, nel bene o nel male, la vita di ogni cittadino. Queste organizzazioni private rappresentate dai loro gruppi di comando o élites (chiamatele come volete), data la loro forte influenza, possono addirittura rappresentare l’essenza del vero potere di uno Stato democraticamente costituito.

Oltretutto sembra che anche i media in generale non facciano più caso a questi aspetti tanto da farli sembrare quasi un’evoluzione “naturale” del sistema politico-economico generale.

Tutto ciò ha un’implicazione notevole anche sul concetto di mercato concorrenziale che spesso si invoca per giustificare un’ingerenza privata in uno specifico comparto pubblico.

Se come è vero il mercato perfettamente concorrenziale è una pura teorizzazione concettuale priva di riscontro oggettivo (vedi mio articolo su Galatina2000: Ritorno all’Economia Politica), a maggior ragione dinamiche di questo tipo non solo non lo perseguono ma addirittura creano i presupposti per una maggiore concentrazione sia di potere che di ricchezza a scapito ovviamente del benessere collettivo.

In molti paesi avanzati tuttavia ci sarebbe veramente bisogno di vere e proprie privatizzazioni che servirebbero a liberare nuove energie e potenzialità in termini di sviluppo e crescita economica. Peccato però che proprio dove bisognerebbe lavorare di più per concretizzarle ci si scontri ancora con delle lobby solide e apparentemente intoccabili che rendono ogni cambiamento assolutamente improponibile.

Se questi sono i contesti evolutivi della politica e dell’economia allora mi sembra di intuire che nel dilemma amletico almeno una certezza c’è. Il “Non essere” della democrazia.

26 novembre 2009

Alberto Cacciatore
Pubblicato su www.galatina2000.com

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